Venerdì 12 febbraio 2016 ore 21:00 presso Società Umanitaria,
Sala Bauer
Via S. Barnaba 48,
Milano
La trascrizione dell'intervento del Dott. Marco Focchi è presente al fondo del post.
Locandina integrale
Trascrizione dell'intervento del Dott. Marco Focchi.
Poiché questa sera parliamo del piacere di capire, possiamo considerare anche il piacere di scrivere. Il piacere di scrivere libri si trova quando ci si chiude in una stanza, con le proprie cose, le proprie riflessioni, i propri argomenti. Ci si concentra, si raccoglie tutto e si inizia la stesura. Poi, quando il libro è scritto e stampato, c’è il momento della presentazione, quando ci si incontra con i lettori, e le parole del libro, che altrimenti sarebbero morte, chiuse come in un cofanetto, cominciano a vivere, e quel che si è scritto si amplia attraverso la lettura che ne fanno gli altri, i colleghi, gli amici, il pubblico.
Devo dire che sentire gli interventi fatti dagli ospiti della tavola rotonda di questa sera ha veramente allargato l’orizzonte di quel che avevo potuto vedere scrivendo il libro. Scrivere significa entrare in dialettica con la lettura, questo mi sembra assolutamente importante, e devo dire che questa sera tutti gli scorci, le angolazioni di lettura che sono state date, mi hanno veramente aiutato a capire maggiormente i temi che io stesso avevo cercato di affrontare.
Roberto Caracci diceva che sono stato generoso nel libro a non pugnalare gli insegnanti, ma non ho assolutamente sentito il bisogno di farlo, perché ho trovato insegnanti straordinari. Devo dire “le” insegnanti, perché trattandosi dell’esperienza fatta in una scuola elementare, la maggior parte, o meglio, praticamente la totalità del corpo docente era al femminile, e ho trovato queste insegnanti di una completa disponibilità, di una eccezionale attenzione.
Sono stato chiamato in questa scuola quando si trovava in un momento di crisi, perché in alcune classi erano stati introdotti dei bambini autistici – ne parlo a più riprese nel libro, in particolare nell’ultimo capitolo – e il Consiglio d’Istituto aveva deciso che, per affrontare il problema, voleva uno psicoanalista, perché alcune delle insegnanti era sensibilizzate al discorso analitico.
All’inizio le mie consegne erano di lavorare con i bambini autistici. Nella scuola era presente anche un altro psicologo per l’area del disagio nel suo insieme, che però dopo un anno ha lasciato l’incarico, e mi è stato quindi chiesto di occuparmi di tutta l’area del disagio.
Ho accettato, ma prendere l’insieme del disagio significava prendere tutto, perché tutti sono a disagio nella scuola: i bambini, gli insegnanti, i genitori, e ogni problema arriva sul tavolo dello psicologo.
Pietro Barbetta, ha descritto molto bene il versante autoritario che assume lo psicologo quando si investe di un discorso scientifico che non gli compete, che non lo riguarda, quando tratta il fattore umano come fosse un oggetto di calcolo. L’autoritarismo che ritroviamo nella scienza quando si trasferisce il metodo scientifico nel trattamento dei problemi soggettivi, è l’effetto ipercompensativo del depotenziamento dell’autorità che abbiamo visto verificarsi nelle istituzioni.
Nella scuola, quando ho cominciato a prendere in mano più ampiamente la situazione – genitori, insegnanti, bambini – mi sono trovato di fronte a un’infinità di questioni, ma fondamentalmente con due tipi di richieste particolari.
Una riguardava quelli che una volta avremmo chiamato i problemi di condotta, e che adesso riguardano i cosiddetti bambini senza redini, quelli che non si riescono a controllare in classe, che schizzano via dappertutto, che non ascoltano gli insegnanti.
Questo un problema è sicuramente relativo alla perdita di autorità dell’istituzione scolastica, ma non solo dell’istituzione scolastica, per altro verso è un problema dell’istituzione familiare, e possiamo dire delle istituzioni in genere nel mondo in cui viviamo. Questa perdita d’autorità è l’effetto di un lungo processo storico, che possiamo fare risalire a Lutero. Nel mondo moderno a partire dall’Illuminismo, viene meno la credenza in un altro mondo, di un mondo al di là del mondo, non solo quello del cristianesimo come la vita eterna, anche quello di Platone, che parla di un mondo delle idee al di là del mondo percepibile. Viene meno oggi poi anche l’altro tipo di fede, quella in un mondo trasformato dalla rivoluzione. Si pone quindi, per dirla con le parole di Deleuze, la necessità di credere al mondo in cui siamo.
Cosa vuol dire credere al mondo in cui siamo? Vuol dire riformare la credenza. La forza delle istituzioni viene meno perché non sono più investite di una autorità trascendente, perché hanno perduto questo appoggio, questo puntello. Nel libro parlo diffusamente dell’autorità, della necessità dell’autorità, io che vengo dall’esperienza del ‘68, dall’esperienza cioè di una generazione che ha radicalmente criticato l’autoritarismo. L’autorità a cui mi riferisco nel libro è però evidentemente qualcosa di molto diverso dall’autoritarismo che abbiamo fronteggiato in quegli anni caldi.
L’autoritarismo è per un verso quello dello scientismo, che si investe di una eredità che non gli appartiene, come ha detto Barbetta, e per altro verso è quello della repressione, quello studiato dai francofortesi dopo l’esperienza delle società totalitarie.
L’autorità necessaria riguarda invece una possibilità di ritrovare la credibilità. Occorre che tutte le figure impegnate in una di quelle definite da Freud come professioni impossibili – la politica, l’insegnamento, la psicoanalisi – ritrovino credibilità. Non dico debbano ricostruire l’autorità perduta, perché non si risalgono i processi storici al contrario, ma dico piuttosto che è necessario costruire una diversa nozione di autorità, dopo averla decostruita.
Costruire diversamente l’autorità significa ritrovare la possibilità di essere credibili, e quindi dobbiamo formulare una nozione laica di credenza. È un processo secondo me ancora in corso, è qualcosa che non abbiamo ancora realizzato. Siamo orfani di un’epoca in cui gli ancoraggi erano solidi. Un uomo, nel mondo di ieri, quando nasceva sapeva dove avrebbe vissuto, cioè nel paese in cui era nato, cosa avrebbe fatto, cioè il mestiere dei genitori, cosa gli sarebbe successo dopo la morte, cioè sarebbe andato all’Inferno o in Paradiso a seconda di come si era comportato.
Oggi non è più così, l’uomo contemporaneo in questo senso è disancorato. Ricostruire diversamente l’autorità significa ritrovare un diverso senso della credenza, un senso che, per dirla come Hume, implica la credenza come un modo di fare delle affermazioni su delle cose non date a partire delle cose date.
Non si parte da una trascendenza, ma da qualcosa di concretamente terreno, da delle prove. È un aspetto che nel libro ho cercato di illustrare attraverso un filone di film che riguarda l’educazione, dove si vede in genere un insegnante che entra in classe come se andasse nella giungla, e la storia porta al momento in cui deve affrontare un ragazzo con un coltello e mostrare il proprio coraggio, oppure deve affrontare delle bande di neri che si sfidano a New York, e deve uscire spavaldo allo scoperto mentre è in corso una sparatoria. Deve esserci insomma una prova, e questa prova è ciò che concreta la credibilità, che rende credibile, che dà autorità. Se una volta l’insegnante, o chi si trovava comunque in una posizione di qualche dignità pubblica, investito di qualche carica, poteva fruire di una autorità che ricadeva su di lui dall’alto proveniente da una catena gerarchica, adesso non è più così. Adesso occorre una prova, l’autorità non è più trascendente, è necessario costruirla.
È qualcosa che vediamo anche nella clinica. Venti, trenta anni fa, qualcuno veniva da noi perché eravamo investiti dell’autorità della psicoanalisi. La psicoanalisi aveva un posto sociale riconosciuto, e noi eravamo all’interno di questo. Poi, attraverso vari passaggi, il transfert si singolarizzava e la cura poteva iniziare.
Adesso non è più così. Le persone vengono a cercare una soluzione, e bisogna costruire una credibilità che diventa poi motore del transfert, che diventa la possibilità stessa del transfert.
Questo è un primo filone dei problemi che ho incontrato nella scuola: i bambini che non rispondono a nessuna autorità. La richiesta delle istituzioni è di gestirli con i mezzi della scienza a partire dalla posizione in cui si viene messi, che è quella dell’esperto. La scuola, per esempio, dice che il bambino è ingovernabile perché la famiglia ha fallito nel compito educativo. La famiglia sostiene invece che la scuola è incapace di insegnare al bambino come dovrebbe. È un effetto della perdita di prestigio, della difficoltà incontrata da entrambi i lati: nessuno ha più in mano la situazione, e suppone che la carenza sia dall’altra parte. Si verifica così un confronto immaginario, e tutto arriva sul tavolo di colui a cui viene chiesto di dare una risposta a partire dall’autorità della scienza.
Non ci si può sottrarre naturalmente, ma bisogna mettersi in condizione di occupare questo posto diversamente, e decostruire dall’interno questa domanda di scientificità facendo parlare la gente, e ascoltando bene prima di dare risposte. Le scienze cognitivo-comportamentali ritengono infatti di avere già le risposte, hanno le loro batterie di test, pensano di sapere come orientare le persone. Noi non lo sappiamo, abbiamo bisogno di stare a sentire la lungo e persone, di farle parlare, e di capire quali sono i punti di inciampo, i pertugi che si offrono, scoprire le vie attraverso cui passare, e a partire dalle quali offrire non quello che ci viene richiesto, l’efficacia dell’intervento, ma la possibilità di ricostruire l’autorità, cioè di investirsi di una responsabilità, che è il solo mezzo per far funzionare le cose.
L’altro filone di problemi di cui si viene investiti è quello della comprensione. Il libro è infatti suddiviso in tre grosse parti: quella in cui parlo dell’esperienza, quella in cui cerco di vedere i problemi istituzionali legati alla perdita d’autorità, e la parte finale in cui affronto il problema della comprensione.
Ci sono dei bambini che non capiscono. Alcuni sono sveltissimi, sono brillanti, colgono tutto al volo, altri invece non capiscono. E cosa si viene a chiedere? Che capiscano, che si mettano al passo, che le loro rotelle cerebrali comincino a funzionare alla velocità richiesta.
Cosa si fa con un bambino che non capisce? Innanzitutto lo si ascolta, si vede un po’ cosa dice. Tante volte non si capisce bene neppure cosa dice il bambino che non capisce. Quando non capivo, cioè la maggior parte delle volte, chiedevo un colloquio con i genitori. Vedendo i genitori si capisce quali sono i problemi del bambino. Per esempio c’era un bambino che in classe urlava sempre. Quando gli chiedevano qualcosa sovrastava con la voce tutti, doveva giganteggiare vocalmente. Come mai questo bambino non riesce a contenersi, non sta fermo nel banco e non parla tranquillamente? Incontro i genitori, e vedo queste persone a partire dall’investitura autorevole che mi dà la scuola, in una posizione forte per così dire, ma devo fare una fatica tremenda per riuscire mettere lì una parola, perché venivo investito da fiumi di parole ad altissima voce, e questo mi faceva capire, per empatia, perché questo bambino aveva bisogno di urlare per fare breccia nel muro di parole da cui evidentemente a sua volta veniva investito.
Occorre quindi, innanzi tutto, parlare con i genitori per capire quali sono i problemi dei bambini, e mi sono reso conto che – forse ce lo possiamo immaginare, ma vederlo concretamente è un’altra cosa – i bambini che non capiscono a scuola, in genere, hanno qualcosa che non capiscono nella loro vita. Si tratta allora, preliminarmente, di individuare quel che non capiscono nella loro vita, perché costituisce come punto cieco, è come un elemento contaminato, che si cerca di isolare, ma dovunque lo si metta contagia quel che sta intorno. Questo punto di incomprensione allarga quindi il proprio effetto, diffonde i propri virus su tutto il resto. Per difendersi un bambino allora non capisce più niente, perché c’è qualcosa di opaco che si amplia, s’ispessisce formando come una cortina. Questo qualcosa che il bambino non capisce nella propria vita non dobbiamo necessariamente chiarirlo, non dobbiamo far luce su tutto, produrre la totale trasparenza. Una zona opaca è fondamentale, e tutti noi abbiamo un punto che non capiamo nella nostra vita. Basta che sia solo un punto, e che resti delimitato. Il lavoro da fare con questi bambini è circoscrivere l’area di non comprensione, e non per renderla chiara, ma farne una leva a partire da cui tutto il resto possa diventare comprensibile.
Si tratta, in fondo, dell’inciampo valorizzato da diversi relatori questa sera alla tavola rotonda. Occorre trovare, circoscrivere, delimitare, definire, lavorare, mettere a frutto questo inciampo. L’obiettivo non è di eliminare l’area di non comprensione, ma renderla un punto di partenza per ottenere retroattivamente un effetto di comprensione su tutto il resto.
C’è poi, su un altro piano, tutto il lavoro da fare con i genitori. Come ricordava Domenico Cosenza nella scuola si incontra l’Altro del bambino, che è incarnato per un verso dalla famiglia, ma per altro verso anche dalla scuola stessa. Quando ci si trova con un bambino irrequieto si tratta a di volte temperare l’ansia di un genitore, che ha l’effetto di sovrasollecitare un bambino. Abbiamo altrimenti i famosi bambini iperattivi con deficit di attenzione. Di bambini iperattivi ne ho visti un gran numero, ce ne sono tantissimi, sono quei bambini che non stanno fermi un attimo, che scaricano nel movimento l’angoscia, ma che soprattutto sono iperattivi perché sono iperattivati.
Una volta, parlando con i genitori di uno di questi bambini, ho chiesto: “Come si svolge la giornata di suo figlio?” “Dopo la scuola – mi rispondono – torna a casa e alle 3:00 ha lezione di inglese, alle 4:00 quella di piano, alle 5:00 c’è karatè, alle 6:00 equitazione…” Il bambino così è continuamente sollecitato, e inevitabilmente si verifica un’iperattivazione della pulsione che si scarica nel movimento.
Mancano, in questi casi, quelle splendide distese di noia, quei pomeriggi troppo azzurri, per dirla con Paolo Conte, in cui non c’è niente, “neanche un prete per chiacchierar”. Ricordo, quando ero dodicenne, tredicenne, i pomeriggi interminabili durante le vacanze estive, dove il tempo dilatato ti costringeva a notare cose minime, a vedere un formicaio, a inseguire la corsa di una cicala, a focalizzare l’attenzione su minuscoli frammenti d’esistenza, briciole di vita, che diventavano grandi, importanti, fonte di pensieri, di invenzioni, di creazioni, di costruzioni. Quindi, lasciamo un po’ tranquilli i bambini iperattivi, lasciamo loro la possibilità di annoiarsi.
Ci sono poi i disturbi specifici, tra i quali spicca il grande tema della dislessia. Se ne parla sin dalla seconda metà del XIX secolo e, nel corso degli anni, la ricerca delle è molto progredita sull’argomento. I ricercatori contemporanei riescono a vedere le diverse zone del cervello con il neuroimaging, possono riconoscere le zone attive nei processi di lettura. I neuroscienziati sono anche abbastanza avvertiti, dal punto di vista epistemologico, in modo da non cadere nel tranello di affermare che se si è attivata una determinata area, lì è la causa della dislessia. La ricerca neuroscientifica attuale riconosce che non ci sono geni della lettura.
In fondo, se ci pensate, ciascuno di noi nella propria vita deve imparare ex novo a leggere. Se avessimo dei geni per la lettura nasceremmo già con la lettura innestata e pronta per uno sviluppo spontaneo. Non c’è invece nel cervello un’area geneticamente predisposta per la capacità di leggere, e per leggere usiamo l’area dedicata alla visione. Abbiamo un pacchetto di neuroni che funzionano per la visione, e man mano nel corso della storia – dall’invenzione della scrittura nel 3200 a.C. con i Sumeri – a partire da questi neuroni si sono creati dei circuiti supplementari, producendo quello che i neuroscienziati chiamano un “riciclaggio neuronale". I neuroni predisposti per la visione vengono cioè utilizzati per la lettura, e rimandano poi ad altre aree cerebrali, dove sono situati i centri del linguaggio. Si svolge allora come una corsa dalle aree della visione a quelle che permettono la decifrazione letteraria di quel che è stato recepito dalla visione.
I problemi relativi alla dislessia hanno due grandi assi: le difficoltà di base sono quelle di grammatizzazione, quando un bambino non riconosce gli elementi della parola, e non riesce ad far corrispondere i suoni alle lettere perché non è in grado di individuare i fonemi. Per esempio, quando si chiede a un bambino così quale è il suono con cui comincia la parola “gatto”, risponde: “Miao”. Non riesce quindi a scomporre la G, la A, la T, ecc., Questi sono i casi più difficili, con problemi più di fondo. Ma ci sono anche bambini semplicemente lenti nella decifrazione. Il circuito cerebrale ci mette un po’ più tempo a passare le informazioni tra l’area della visione e quella della decifrazione. In questo caso i bambino è lento, d’accordo, ma lasciamogli tempo. Se c’è una pressione che punta alla prestazione, allora questo bambino può entrare in angoscia, la pressione gli mette fretta e l’ansia fa girare a vuoto i circuiti.
Questo campo di ricerche nelle neuroscienze è interessante per noi, perché non porta dogmaticamente a incentrarsi sulla causalità biologica, e ci mostra invece delle modalità di funzionamento. Trovo particolarmente significativo per esempio il divario temporale che si verifica tra visione e decifrazione. Ho cercato di trattare in diversi punti del libro il problema della comprensione in generale, e la dislessia può costituire un modello, una cartina che ci mostra in formato ridotto qualcosa che, su più ampia scala, riguarda tutti i problemi di comprensione.
L’idea è che c’è un tempo troppo lungo per la comprensione che non viene mai recuperato, che si accumula e diventa ritardo nella lettura, nella comprensione, nell’assimilazione. Il girare a vuoto della comprensione rispecchia, in ultima istanza il girare vuoto provocato dall’ansia, dall’angoscia. Il percorso della comprensione girando a vuoto non arriva al punto di arresto, a quel punto incomprensibile della vita di cui parlavo prima, punto che permette un ritorno, che permette di dare un ordine al discorso. Il problema di capire è infatti anche quello di mettere in ordine il discorso, e per farlo è necessario avere un punto a partire dal quale questo discorso si ordina.
Ho preso, nel libro, l’esempio di un matematico francese, molto conosciuto, Alain Connes, che dice che per capire è necessario il tempo di fare il buco. Connes è l’inventore di una teoria matematica che permette una visione dell’universo diversa, che ha criticato la teoria delle stringhe promuovendo una sintesi tra la teoria della relatività e la meccanica quantistica. Per capire, dice Connes – che evidentemente ha capito un sacco di cose – ci vuole il tempo in cui il trapano fa un buco nel muro. A volte la gente non capendo subito si spazientisce e lascia perdere. Ci vuole invece il tempo per passare di là dal muro, il tempo che il trapano fori la parete. A volte la non comprensione è proprio questo: il trapano che gira a vuoto, che non riesce a costruire gli elementi su cui la comprensione si possa appoggiare.
Il terzo e ultimo grande settore trattato nel libro riguarda l’autismo. L’autismo è stato per me un incontro straordinario nella scuola. Immaginatevi che cos’è una classe dove c’è un bambino autistico, che schizza in giro dappertutto, che accende la radio, ruba i giocattoli degli altri bambini. Le maestre non sanno come fare, non sanno come prendere un bambino autistico. È stata una straordinaria esperienza, ma la cosa veramente particolare è stata la possibilità di penetrare nella storia di uno di questi bambini. In genere non si riesce a parlare con loro, quando ci si rivolge a loro non c’è una risposta sull’asse immaginario sul quale di solito avviene il dialogo, e parlare con i genitori porta di solito di fronte a un muro opaco, molto difficile da aggirare, molto chiuso.
Con una coppia di genitori di una bambina invece, per un caso fortuito, sono riuscito a squarciare il velo, ad andare dietro le quinte, e a vedere uno scenario inimmaginabile, che mostrava in modo assolutamente chiaro, nella storia di questa bambina, la logica attraverso cui si era costruito l’autismo. Quando si vede una cosa così, parlare di cause genetiche dell’autismo fa proprio sorridere. Capisco che il muro il più delle volte è invalicabile, ma se entriamo in queste storie, se ne vediamo la lunghezza e la profondità, la logica dell’autismo diventa assolutamente leggibile. Questo non vuol dire facile da trattare, e su questo le nostre Antenne del Campo freudiano hanno un’esperienza incomparabile, ma appare chiaro per il modo in cui si è determinato, e questo non è certo trascurabile anche per il trattamento.
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