giovedì 23 novembre 2017

Fino a che punto accogliere accogliere accogliere?



Dirigo una scuola dell’infanzia in Sicilia da ormai 30 anni. Una scuola di successo. Nota a Messina per la sua attenzione ai molteplici linguaggi del bambino, alla singolarità di ognuno, alla appartenenza al gruppo. Orto, teatro, arte, yoga...Ho una formazione Lacaniana e siamo molto attenti alle problematiche di ognuno curando con attenzione il rapporto con i genitori. Questo ha favorito sicuramente il fatto che molti bambini con gravi problematiche, diagnosi di ogni genere... casi gravi che nonostante il buon rapporto numerico e la bellezza degli spazi, la cura, l’attenzione e la dedizione ci espongono a difficoltà di ogni genere. Un sentimento di impotenza ci assale da qualche tempo, di senza speranza per questi bambini ma anche di compassione per quelli che sono penalizzati in varie forme  in nome dell’integrazione da noi stessi professata.
Inoltre anche quando questi bambini raggiungono l’età scolare, sta diventando una consuetudine che, da parte dei genitori, sostenuti dai loro neuropsichiatri e terapisti vari, ci chiedono di prolungare il tempo dell’asilo presso di noi. Ma fino a che punto è giusto tenere dentro un gruppo un numero di bambini che sembrano usciti da qualcuno volò sul nido del cuculo? Insegnanti esasperati seppure molto disponibili, estenuati da grida, morsi, cacche spalmate ovunque e così via...
Fino a che punto accogliere accogliere accogliere? Fino a che punto di fronte ad una violenza inaudita di un bambino di 4 anno che spinge, morde, urla bisogna tenerlo nel gruppo a tutti i costi?
Siamo esasperati.
Grazie di cuore.

R.


>Gentile R.,

vorrei avere una risposta definitiva per il problema che lei pone ma, come lei stessa si rende conto con la sua esperienza, non c’è una misura netta in queste situazioni. Lei ha una formazione lacaniana, mi dice, quindi sicuramente rifugge dalle soluzioni semplicistiche che in molti casi vengono proposte e che, anche se impraticabili, godono del prestigio sociale proprio grazie al fatto che sembrano scientifiche, il che vuol dire: risolutive. Il fatto è che non esiste una scienza dell’integrazione, e ci sono molti campi dell’esistenza umana in cui il metodo scientifico – che tanto ci ha allargato i nostri orizzonti quando si applica agli oggetti – non ha campo di applicazione. La ricerca di metodi evidence based è spesso solo un tentativo di uscire dallo smarrimento, di invocare un “metodo forte” (che riecheggia molto “l’uomo forte”). Mi capita a volte, per esempio con gli adolescenti in difficoltà scolastica, quando il lavoro analitico ha tempi di stagnazione, prende strade più lunghe o tortuose, che i genitori mi dicano: “È forse ora il momento di passare a metodi più decisivi, di passare a dei farmaci”. Il fatto è che non c’è una pillola che farà imparare la lezione al figlio.
Capisco bene quel che lei mi dice quando mi parla di insegnanti esasperati da grida, intemperanze, crisi pantoclastiche. Ho conosciuto bene queste situazioni nella scuola elementare in cui per molti anni ha fatto consulenza. Sono sempre riuscito a evitare il “metodo forte” che veniva in quelle occasioni invocato, e il tempo e la pazienza mi hanno sempre dato ragione.
La sua domanda è molto seria, e la sola risposta seria è che l'unica vera arma nelle nostre mani è la pazienza contro l’impazienza – giustificata certo, ma controproducente – dei genitori e a volte degli insegnanti, la pazienza di seguire i labirinti del simbolico, di non cedere alle politiche segregative, di non misurarsi a partire dal metro di un’onnipotenza che è diventato lo standard in un’epoca dominata dalla tecnologia, ma che diventa fonte di frustrazione di fronte ai problemi dell’umano.
Un saluto cordiale

dott. Marco Focchi



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