Buongiorno Dott. Focchi,
Sono un insegnante di Filosofia in un liceo di Torino.
Ho letto la notizia di ieri della ragazza che ha praticato l’eutanasia in Olanda e sono sconvolto.
Mi è capitato più volte nella mia vita di incontrare ragazze e ragazzi problematici, ma mai ho potuto immaginare una soluzione tanto drastica.
Vorrei parlarne in classe senza fare moralismi o risultare pesante. Credo che la vita sia un dono speciale.
Le è mai capitato di affrontare un tema tanto delicato soprattutto con ragazzi adolescenti?
Se sì, in che modo l’ha fatto? Altrimenti, dovesse immaginarlo, come lo farebbe?
La ringrazio per il supporto.
D.
>Gentile D.,
Più volte ho incontrato, nella mia vita professionale, situazioni estreme che si affacciavano a un desiderio di morte. Il suicidio è una delle cose più misteriose e difficili da spiegare. Nelle psicosi è affrontato spesso con lucidità fredda. Nelle depressioni nevrotiche giunge all'estremo limite della disperazione. Per l’eutanasia si vorrebbe pensare che si tratta di una decisione razionalmente presa, quando la vita risulta insostenibile. Dubito però che una simile scelta possa essere messa interamente sotto la luce della razionalità. Nel caso della ragazza olandese è successivamente emerso che la notizia circolata attraverso i media di tutto il mondo non risultava corretta, in quanto le autorità hanno negato il consenso all'eutanasia e a quanto pare la ragazza si è lasciata morire cessando di nutrirsi. Approfondimenti sono tuttora in corso da parte delle autorità olandesi. Al di là di questo, di questa storia colpisce la giovane età, l’orizzonte immenso di vita che si chiude, le possibilità e potenzialità perdute. Chiaramente di fronte a queste situazioni il nostro primo impulso è difendere la vita. Una cosa però vorrei osservare. Nel dibattito scaturito dal caso olandese molti hanno asserito di comprendere l’insopportabilità della vita menomata dal dolore fisico, ma considerando che dal dolore morale e psicologico c’è invece sempre una via d’uscita. È una considerazione che può partire da premesse soggettive, e solo misurata su quella che è la propria vita, Nella mia esperienza professionale troppe volte ho visto un dolore psicologico estremo certamente più insopportabile di un dolore fisico. Non dobbiamo mai sottovalutare una situazione di sofferenza perché “solo psicologica”, come se per uscirne bastasse un atto volontario o forza di carattere. Per questo non mi sento di giudicare i medici che si sono trovati di fronte al caso di Noa, senza conoscere a fondo e di prima mano la situazione. La difesa della vita è nobile e tutti vi aderiamo, ma conosciamo la vita di chi è disperato al punto di non poterla più sopportare?
Marco Focchi
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